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giovedì 30 gennaio 2014

Conferenza sui Samurai


L'insospettabile corrispondenza fra armi e giustizia

Alla scoperta dei valori dei Samurai


Ci parlano di  un mondo che pare scomparso, il Maestro Andrea Re ed il suo allievo, Paolo Bianchi. E per farlo utilizzano uno spazio comune: una palestra, dove i loro abiti di tela leggera e quelle spade lunghe, inaspettate sembrano gli attrezzi di scena di un circo improvvisato. Uno spettacolo che rievoca epoche lontane, oppure immagini che scorrono frenetiche sullo schermo della televisione attraverso cui tutto ciò che vediamo diventa estremamente reale, eppure lo osserviamo con il consueto distacco riservato all’ impossibile. Il Maestro e l’allievo spezzano quel confine, ribaltando la prospettiva: una cosa comincia ad esistere solo quando ne comprendiamo il significato. Allora quelle armi si allontanano dai nostri ricordi di vecchi film traboccanti di urla ingiustificate e sangue a fiotti. Attraverso i loro gesti comprendiamo, improvvisamente, che portare con sé una spada non equivale a recare offesa, piuttosto a un modo di dialogare che non implica l’uso delle parole.
E’ una storia che ha radici antiche originate da un’altra cultura, nel pensiero di un popolo che sulla guerra ha fondato regole di vita non basate sull’uso della forza, ma sul suo controllo. Uomini coraggiosi, guerrieri per necessità, disposti a morire per salvaguardare un culto ormai a noi sconosciuto, quello dell’onore.
Il Maestro Andrea Re ci insegna un combattimento che non mira ad ottenere un esito, che non implica una vittoria né una sconfitta. Il cui vero scopo non è difendersi dall’estraneo, ma difendersi dalla vita: così grande, immensa, travolgente contro cui a volte non siamo armati a sufficienza. Possediamo il nostro corpo, l’unico tramite in grado di collegare la nostra dimensione interiore con quella esteriore e creare così un rapporto che ci fortifichi, per permetterci di comprendere noi stessi e ciò che ci circonda.   
“L’errore in cui spesso si incorre,”  sottolinea il Maestro Andrea Re “è pensare che quello che ci rende forti sia il senso della vittoria, prevalere sugli altri. Invece quello che unisce il mondo è la cooperazione, finché non apprendiamo questo non saremo mai capaci di superare le difficoltà che la vita ci pone. I samurai, invece, avevano compreso questo piccolo segreto per affrontare il mondo.”
I samurai, appunto, sono loro il tema portante della conferenza tenutasi il 19 gennaio 2014 nella palestra delle scuole medie di Lomazzo. Una cornice insolita per trattare di un argomento non consueto, in grado di attirare una folta partecipazione da parte di gente di tutte le età. I bambini fissano affascinati quelle armi che hanno imparato a conoscere solo tramite l’educazione, a volte violenta, ricevuta dai cartoni animati. Vorrebbero tanto afferrarle e maneggiarle quelle spade, ma non possono, perché prima di giungere all’ambita conquista devo conoscere un precetto per certo: quelle armi non servono per colpire, o almeno non è quello lo scopo per il quale sono state designate.
Il percorso per arrivare a questa consapevolezza è lungo, non deve trascurare nessuna tappa, perché, come ci spiega il Maestro Andrea Re, il primo insegnamento che un giovane samurai doveva apprendere non era come maneggiare la spada, ma imparare a scrivere. Qui i volti incuriositi dei bambini si rattrappiscono in una smorfia, d’un tratto il fascino delle spade non pare più tanto attraente. “La calligrafia giapponese è molto complessa,” racconta il Maestro “e per impararla serve molta disciplina. Prima di maneggiare la spada un samurai doveva conoscere la disciplina ed apprendere il culto dell’onore. Prendere un brutto voto a scuola, per esempio, in Giappone significa macchiare l’onore della famiglia.” Bastano queste parole per abbassare il mondo orientale, sconosciuto, delle arti marziali ad una dimensione che anche loro, i bambini di oggi, possano facilmente comprendere. “I samurai non imparavano solo a maneggiare le armi, ma anche ad amministrare la giustizia. Il che rendeva l’uso delle armi e la pratica della giustizia strettamente collegate.”
Il giovane samurai riceveva la sua prima spada a dodici anni compiuti e non imparava subito le tecniche per colpire, ma come muoversi in ogni situazione, perché la prerogativa essenziale era la difesa. La spada sarebbe diventata la sua anima, tra i due si creava un vincolo imprescindibile. Nonostante questa stretta dipendenza fra l’arma ed il suo possessore, il samurai non si poteva definire un guerriero, piuttosto un servitore. L’etimologia della parola “samurai” deriva dal verbo “samurau”che significa propriamente “servire”. Servitore del suo Paese innanzitutto, della sua gente e, in particolar modo, del suo signore al quale prestava un giuramento estremo in cui si impegnava a mettere a disposizione la sua stessa vita.  La spada dunque, tenuta sempre al fianco, non diventava un simbolo di potenza, ma di sottomissione: la mano che correva al manico compiva quel gesto solo se spinta da un motivo. E la caduta di un nemico in battaglia non era mai sinonimo di trionfo, implicava piuttosto una breve cerimonia in segno di rispetto per l’avversario colpito. Vivere a stretto contatto con un’arma dalla quale dipendeva un destino suggeriva una visione più profonda della vita, perfino della morte. Prima di un allenamento infatti i samurai si dedicavano ad una preghiera rituale in cui ricordavano coloro che li avevano preceduti, secondo il culto degli avi. L’arma si poneva accanto al corpo, per poi profondersi in un inchino in onore degli spiriti che si concludeva con un solenne battito di mani.
Ci mostrano questi riti e molti altri aspetti della vita di un samurai il Maestro Andrea Re ed il suo allievo, Paolo Bianchi. I combattimenti caratteristici che tanto affascinano grandi e piccini acquisiscono un significato, adesso. Per la prima volta intuiamo il rispetto celato a lungo nell’apparente aggressività delle battaglie, le urla selvagge emesse dai combattenti non indicano furia omicida, ma in realtà si chiamano “kiai”, si tratta di un modo per canalizzare l’energia vitale e le emozioni individuali.
Quel mondo guerriero non appare privo di senso, anzi, per certi aspetti comprendiamo quell’ordine segreto capace di sostenerlo per secoli. Una civiltà che ha fornito un codice etico valido per tutta l’umanità, non solo quando imperversano i tumulti della guerra, ma anche nei periodi di pace. Valori solidi, stabili, imperituri che sostengono l’uomo di ogni epoca attraverso le prove dell’esistenza, che sempre di qualche guerra si compone. Ad un samurai era richiesto di mantenere la parola data, cercare il miglioramento per sé e per gli altri, avere un comportamento retto nell’osservanza delle regole e della disciplina, essere leale nei confronti dei propri compagni.  Coraggio eroico, onestà, compassione, sincerità, sono concetti mai troppo antichi per essere dimenticati, qualità che dovrebbero rappresentare la geografia interiore di ogni uomo. 
 “L’arte dei samurai si apprende attraverso l’imitazione,” afferma il Maestro Andrea Re “un insegnante deve essere in grado di ispirare fiducia nell’allievo. Perché  non abbia paura del confronto. Deve essere il Maestro a portare il suo discepolo sulla cattedra perché possa apprendere. Questo era un concetto conosciuto già oltre seicento anni fa.”  E oggi spesso neppure tenuto in considerazione, sarebbe opportuno aggiungere.
Educazione, dal latino educatio, significa “portare fuori.” I samurai sapevano di dover coltivare il proprio universo interiore, perché ci fosse molto poi da trasmettere all’esterno. Un’anima vuota non avrebbe avuto nulla da consegnare agli altri, l’essenziale risiedeva in uno spiraglio chiamato coscienza. Su questo nodo si fonda la sfida culturale combattuta dal Maestro Andrea Re: unire l’occidente all’oriente, perché quel lontano Paese dal sole rosso illumini un poco anche il nostro sapere con la luce chiara dei valori onesti.

Alice Figini
Collaboratrice per la testata giornalistica “Storie di Sport”
Spettatrice della conferenza 

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