L'insospettabile corrispondenza fra armi e giustizia
Alla scoperta dei valori dei Samurai
Ci
parlano di un mondo che pare
scomparso, il Maestro Andrea Re ed il suo allievo, Paolo Bianchi. E per farlo
utilizzano uno spazio comune: una palestra, dove i loro abiti di tela leggera e
quelle spade lunghe, inaspettate sembrano gli attrezzi di scena di un circo
improvvisato. Uno spettacolo che rievoca epoche lontane, oppure immagini che
scorrono frenetiche sullo schermo della televisione attraverso cui tutto ciò
che vediamo diventa estremamente reale, eppure lo osserviamo con il consueto
distacco riservato all’ impossibile. Il Maestro e l’allievo spezzano quel
confine, ribaltando la prospettiva: una cosa comincia ad esistere solo quando
ne comprendiamo il significato. Allora quelle armi si allontanano dai nostri
ricordi di vecchi film traboccanti di urla ingiustificate e sangue a fiotti.
Attraverso i loro gesti comprendiamo, improvvisamente, che portare con sé una
spada non equivale a recare offesa, piuttosto a un modo di dialogare che non
implica l’uso delle parole.
E’
una storia che ha radici antiche originate da un’altra cultura, nel pensiero di
un popolo che sulla guerra ha fondato regole di vita non basate sull’uso della
forza, ma sul suo controllo. Uomini coraggiosi, guerrieri per necessità,
disposti a morire per salvaguardare un culto ormai a noi sconosciuto, quello
dell’onore.
Il
Maestro Andrea Re ci insegna un combattimento che non mira ad ottenere un
esito, che non implica una vittoria né una sconfitta. Il cui vero scopo non è
difendersi dall’estraneo, ma difendersi dalla vita: così grande, immensa,
travolgente contro cui a volte non siamo armati a sufficienza. Possediamo il
nostro corpo, l’unico tramite in grado di collegare la nostra dimensione
interiore con quella esteriore e creare così un rapporto che ci fortifichi, per
permetterci di comprendere noi stessi e ciò che ci circonda.
“L’errore
in cui spesso si incorre,”
sottolinea il Maestro Andrea Re “è pensare che quello che ci rende forti
sia il senso della vittoria, prevalere sugli altri. Invece quello che unisce il
mondo è la cooperazione, finché non apprendiamo questo non saremo mai capaci di
superare le difficoltà che la vita ci pone. I samurai, invece, avevano compreso
questo piccolo segreto per affrontare il mondo.”
I
samurai, appunto, sono loro il tema portante della conferenza tenutasi il 19
gennaio 2014 nella palestra delle scuole medie di Lomazzo. Una cornice insolita
per trattare di un argomento non consueto, in grado di attirare una folta
partecipazione da parte di gente di tutte le età. I bambini fissano affascinati
quelle armi che hanno imparato a conoscere solo tramite l’educazione, a volte
violenta, ricevuta dai cartoni animati. Vorrebbero tanto afferrarle e
maneggiarle quelle spade, ma non possono, perché prima di giungere all’ambita
conquista devo conoscere un precetto per certo: quelle armi non servono per
colpire, o almeno non è quello lo scopo per il quale sono state designate.
Il
percorso per arrivare a questa consapevolezza è lungo, non deve trascurare
nessuna tappa, perché, come ci spiega il Maestro Andrea Re, il primo
insegnamento che un giovane samurai doveva apprendere non era come maneggiare
la spada, ma imparare a scrivere. Qui i volti incuriositi dei bambini si
rattrappiscono in una smorfia, d’un tratto il fascino delle spade non pare più
tanto attraente. “La calligrafia giapponese è molto complessa,” racconta il
Maestro “e per impararla serve molta disciplina. Prima di maneggiare la spada
un samurai doveva conoscere la disciplina ed apprendere il culto dell’onore.
Prendere un brutto voto a scuola, per esempio, in Giappone significa macchiare
l’onore della famiglia.” Bastano queste parole per abbassare il mondo
orientale, sconosciuto, delle arti marziali ad una dimensione che anche loro, i
bambini di oggi, possano facilmente comprendere. “I samurai non imparavano solo
a maneggiare le armi, ma anche ad amministrare la giustizia. Il che rendeva
l’uso delle armi e la pratica della giustizia strettamente collegate.”
Il
giovane samurai riceveva la sua prima spada a dodici anni compiuti e non
imparava subito le tecniche per colpire, ma come muoversi in ogni situazione,
perché la prerogativa essenziale era la difesa. La spada sarebbe diventata la
sua anima, tra i due si creava un vincolo imprescindibile. Nonostante questa
stretta dipendenza fra l’arma ed il suo possessore, il samurai non si poteva
definire un guerriero, piuttosto un servitore. L’etimologia della parola “samurai”
deriva dal verbo “samurau”che significa propriamente “servire”. Servitore del
suo Paese innanzitutto, della sua gente e, in particolar modo, del suo signore
al quale prestava un giuramento estremo in cui si impegnava a mettere a
disposizione la sua stessa vita.
La spada dunque, tenuta sempre al fianco, non diventava un simbolo di
potenza, ma di sottomissione: la mano che correva al manico compiva quel gesto
solo se spinta da un motivo. E la caduta di un nemico in battaglia non era mai
sinonimo di trionfo, implicava piuttosto una breve cerimonia in segno di
rispetto per l’avversario colpito. Vivere a stretto contatto con un’arma dalla
quale dipendeva un destino suggeriva una visione più profonda della vita,
perfino della morte. Prima di un allenamento infatti i samurai si dedicavano ad
una preghiera rituale in cui ricordavano coloro che li avevano preceduti,
secondo il culto degli avi. L’arma si poneva accanto al corpo, per poi
profondersi in un inchino in onore degli spiriti che si concludeva con un
solenne battito di mani.
Ci
mostrano questi riti e molti altri aspetti della vita di un samurai il Maestro
Andrea Re ed il suo allievo, Paolo Bianchi. I combattimenti caratteristici che
tanto affascinano grandi e piccini acquisiscono un significato, adesso. Per la
prima volta intuiamo il rispetto celato a lungo nell’apparente aggressività
delle battaglie, le urla selvagge emesse dai combattenti non indicano furia
omicida, ma in realtà si chiamano “kiai”, si tratta di un modo per canalizzare
l’energia vitale e le emozioni individuali.
Quel
mondo guerriero non appare privo di senso, anzi, per certi aspetti comprendiamo
quell’ordine segreto capace di sostenerlo per secoli. Una civiltà che ha
fornito un codice etico valido per tutta l’umanità, non solo quando
imperversano i tumulti della guerra, ma anche nei periodi di pace. Valori
solidi, stabili, imperituri che sostengono l’uomo di ogni epoca attraverso le
prove dell’esistenza, che sempre di qualche guerra si compone. Ad un samurai era
richiesto di mantenere la parola data, cercare il miglioramento per sé e per
gli altri, avere un comportamento retto nell’osservanza delle regole e della
disciplina, essere leale nei confronti dei propri compagni. Coraggio eroico, onestà, compassione, sincerità,
sono concetti mai troppo antichi per essere dimenticati, qualità che dovrebbero
rappresentare la geografia interiore di ogni uomo.
“L’arte dei samurai si apprende
attraverso l’imitazione,” afferma il Maestro Andrea Re “un insegnante deve essere
in grado di ispirare fiducia nell’allievo. Perché non abbia paura del confronto. Deve essere il Maestro a
portare il suo discepolo sulla cattedra perché possa apprendere. Questo era un
concetto conosciuto già oltre seicento anni fa.” E oggi spesso neppure tenuto in considerazione, sarebbe
opportuno aggiungere.
Educazione,
dal latino educatio,
significa “portare fuori.” I samurai sapevano di dover coltivare il proprio
universo interiore, perché ci fosse molto poi da trasmettere all’esterno.
Un’anima vuota non avrebbe avuto nulla da consegnare agli altri, l’essenziale
risiedeva in uno spiraglio chiamato coscienza. Su questo nodo si fonda la sfida
culturale combattuta dal Maestro Andrea Re: unire l’occidente all’oriente,
perché quel lontano Paese dal sole rosso illumini un poco anche il nostro
sapere con la luce chiara dei valori onesti.
Alice
Figini
Collaboratrice
per la testata giornalistica “Storie di Sport”
Spettatrice
della conferenza
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